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  • Immagine del redattorePaolo Benanti

TANSTAAFL: i dati durante COVID-19 e il futuro che ci attende

Viviamo un tempo "innaturale", rinchiusi in casa per la quarantena ma connessi al mondo grazie alle infrastrutture digitali. Separati fisicamente ma connessi nei social. In questo tempo "alieno" produciamo dati come mai prima. Utilizziamo internet per parti della nostra vita che normalmente non avevano alcun riflesso nel digitale (si pensi anche solo alle Messe in streaming). Che conseguenze può avere tutto questo? Che potere stiamo dando a chi monetizza i nostri dati e a chi li usa per fare politica? Proviamo ad approfondire.



Una storia vera

Domenica di quarantena. Per cambiare un po' il ritmo delle giornate e per fare qualcosa di buono per i miei confratelli mi sono messo in testa di fare un dolce. Dopo un po' di indecisione ho puntato sulla famigerata torta della nonna. Un dolce impegnativo che poteva svolgere il duplice scopo che mi prefiggevo: tenermi occupato un paio d'ore e far contenti i miei confratelli.


Premetto che i risultati sono stati più che dignitosi e anche apprezzati come mostra questa foto:



Tuttavia questa storia ha un altro lato importante. Nel seguire una ricetta a un certo punto ho trovato questa espressione: "maneggiate brevemente gli ingredienti giusto il tempo di compattare la frolla e non formare la maglia glutinica". Ora dalle mie conoscenze di chimica e biologia so che il glutine è la parte proteica di cui è costituita la farina di frumento e che le proteine nella farina sono presenti in linea di massima in una percentuale variabile dal 8 al 15% (in base al tipo di cereale e alle zone di provenienza). Di tutte le proteine contenute nella farina, due, la gliadina e la glutenina, durante l'impastamento della farina con l'acqua, formano un reticolo che prende il nome di “glutine” od anche “maglia glutinica”.


Insomma la teoria la sapevo. Ma come riconoscere "ad occhio" (e ad occhio da principiante come quello del sottoscritto) quando questo bel processo biologico-chimico che so teoricamente si sarebbe manifestato nell'impasto che avevo sotto le mani?


Qui la mia "fantasia" digitale mi ha aiutato. Grazie a YouTube ho trovato il video che mostrava fino a che punto dovevo impastare.


A questo punto arriva la questione che mi ha fatto pensare. La sera tornando su YouTube per la prima volta gli annunci pubblicitari prima dei video sono cambiati. rispetto a cose più classiche per me (corsi on-line, computer o software) mi è partita la pubblicità per la brava massaia che vuole lavare alla perfezione la sua casa: una nota ditta di saponi mi ha sparato i suoi 10' secondi di annuncio prima di farmi accedere a una canzone che avevo ascoltato già altre volte in passato.



Come mai tutto questo? E perché questo è importante in un periodo come questo? Proviamo a fare qualche ragionamento sul tema.


TANSTAAFL (There ain't no such thing as a free lunch)

Con questa frase, There ain't no such thing as a free lunch (o TANSTAAFL nel suo acronimo), che in italiano si potrebbe tradurre con "Nessuno ti dà da mangiare in cambio di niente", oppure "Non esistono pasti gratis" si vuole intendere che non si può ottenere qualcosa in cambio di niente.


In economia il concetto è conosciuto come "costo opportunità". Anche se una cosa sembra essere gratuita, c'è sempre un costo.


È possibile mangiar gratis al bar durante una promozione, ma il padrone del bar si assicurerà di riuscire a recuperare il costo del cibo con altri mezzi, oppure sceglie di affidarsi ad altri benefici (attrarre nuova clientela). Un altro esempio: sebbene sia possibile per una persona ottenere un "pasto gratis" (come quando un'azienda taglia i costi e guadagna competitività inquinando l'aria), qualcun altro finirà per pagare quel "pasto". Anche se non ci fosse un costo individuale o privato, ci sarebbe un costo sociale.


Cosa significa nel nostro caso?

Di certo non che ti chiederò dei soldi per la mia torta (che è già finita...) ma che il guadagno che ciascuno di noi fa dall'avere piattaforme e social gratuitamente in realtà ha un costo e anche molto elevato. Ma andiamo con calma.



La creazione di profili è diventata onnipresente nella società digitale. Siamo regolarmente invitati e spesso tenuti a creare profili per molti servizi digitali; servizi bancari online, siti di giochi, app di incontri e piattaforme di social media. Anche come accademici, siamo incoraggiati a creare profili su siti come Academia.edu e ResearchGate. Inoltre, le innovazioni tecnologiche, in particolare gli sviluppi negli smartphone, ci consentono di essere "sempre attivi", controllando costantemente questi profili e condividendo sempre più tipi di informazioni; fotografie, video live e tag di geolocalizzazione. I profili riguardano le identità, il modo in cui presentiamo ed esprimiamo noi stessi online. Rispetto ai media tradizionali come la stampa, la radio e la televisione - dove solo un numero limitato di persone è stato in grado di presentarsi e rappresentare gli altri - la natura "molti-a-molti" dei media digitali ha funzionato come forza di compensazione e ha permesso un numero maggiore di persone per presentare ed esprimersi senza fare affidamento su intermediari. Ma possiamo davvero creare il nostro io online come preferiamo? Un limite alle possibilità di auto-presentazione sui social media è il design stesso dei profili. Su Facebook, ad esempio, possiamo scegliere le nostre foto principali e di copertina, ma perché è necessario innanzitutto avere un profilo e una foto di copertina? Facebook lo ha semplicemente progettato in questo modo, suggerendo sottilmente che è così che dovremmo presentarci in questo ambiente digitale. Allo stesso modo, Instagram, che appartiene a Facebook, suggerisce che dovremmo presentarci in foto quadrate e Twitter, in brevi messaggi di testo fino a 280 caratteri. Questa logica si estende alle regole su ciò che possiamo pubblicare sui social media - ad esempio, termini di servizio e linee guida della comunità - che servono a limitare il modo in cui possiamo presentare ed esprimerci attraverso i profili.


Le piattaforme digitali hanno un costo di esercizio. Questi dati spesso sono segreti. Sappiamo che nel 2011 per esempio Facebook ha speso $ 860 milioni, ovvero circa 1 dollaro per utente mensile attivo, per consegnare e distribuire i suoi prodotti. Poiché le piattaforme di social media sono società commerciali, il principale fattore che influenza il modo in cui sono progettate e governate è non solo coprire i costi ma generare anche profitto. Con l'ascesa dell'analisi dei dati, le società di social media hanno tratto la maggior parte dei loro profitti dalla pubblicità mirata basata sull'analisi dei dati degli utenti . In questo modo, il processo di datafication guida la progettazione e la governance delle piattaforme di social media. Il principio alla base di questo modello di business è quello di raccogliere quanti più dati possibili e collegarli a determinati utenti, mentre allo stesso tempo classificare gli utenti in obiettivi sempre più preziosi per le pubblicità. Questo principio si traduce nella progettazione di profili di social media, che di solito consistono in un flusso costante di aggiornamenti e un nucleo del profilo. Infine, questo progetto, insieme alle regole su come usare i profili, promuove modi particolari di come dovremmo presentarci ed esprimerci: essere capaci, complessi e volatili (il sé abbondante) ma, allo stesso tempo, singolari e coerenti (il sé ancorato).


Come il modello di business basato sui dati si traduce in pratiche di identità


Sé abbondante Mentre la parola "profilo" originariamente significava qualcosa di conciso, come una dichiarazione di apertura in un CV, i profili dei social media sono anche flussi praticamente infiniti di informazioni su noi stessi. Quando utilizziamo i social media, ciò che vediamo al centro dello schermo non è solo il nucleo del nostro profilo, ma flussi di aggiornamenti, che ovviamente sono tutti i punti dati utilizzati per la pubblicità mirata. Inoltre, le piattaforme di social media ci incoraggiano attivamente a fornire più aggiornamenti, a presentare esplicitamente sempre più dettagli su di noi e, quindi, a creare più dati. Lo fanno, usando istruzioni come "Cosa hai in mente?" (Facebook) e "Che cosa sta succedendo?" (Twitter). L'analisi dei dati viene anche utilizzata per generare ancora più dati. Gli algoritmi analizzano i profili non solo per mostrarci annunci personalizzati, ma anche per suggerirci altri profili - utenti, fanpage o eventi - con i quali è più probabile che ci connettiamo. In questo modo gli algoritmi lavorano per massimizzare l'abbondanza delle nostre connessioni digitali, che creano nuovi dati su noi stessi e si aggiungono al nostro già digitale capace. Sé ancorato L'abbondanza di dati prodotti attraverso i profili dei social media avrebbe un valore molto inferiore se non fosse possibile ancorare i dati, individuarli a un determinato utente. Pertanto, prima che l'intero meccanismo di stimolazione della produzione di dati venga messo in moto, gli utenti dei social media devono identificarsi creando un account. Facebook richiede inoltre, nei suoi "Termini di servizio" , di "creare un solo account", che aiuta l'azienda a costruire il nostro profilo cliente dettagliato. Tuttavia, ciò può comportare problemi per gli utenti vulnerabili di Facebook, ad esempio i rifugiati. i credenti che vivono in paesi in cui sono perseguitati, le persone che sono discriminate per il loro orientamento sessuale, ecc.

Dal punto di vista di un modello di business basato sui dati, sarebbe l'ideale, se avessimo un profilo, non solo su una particolare piattaforma di social media, ma anche su più piattaforme. Si immagini che tipo di profili dei clienti potrebbero essere costruiti su noi stessi, se i dati dei nostri diversi profili fossero combinati. Questo sta già accadendo. Facebook, ad esempio, tiene traccia del modo in cui navighiamo sul Web attraverso i cookie e ci incoraggia a utilizzare il suo profilo per accedere ad altri servizi digitali come Instagram, Pinterest, Netflix, Spotify e Tinder. Facebook mira a convincerci che un tale "super meta profilo", "ti rende più facile portare la tua identità online con te in tutto il Web", omettendo il fatto che sia anche più facile per Facebook raccogliere più dati su di noi e più difficile per noi presentarci ed esprimerci in modo diverso su diversi social media.

In altri termini vale il seguente adagio per tutte le piattaforme digitale: If You're Not Paying For It, You Become The Product. Se non paghiamo per un servizio siamo noi il prodotto che il servizio vende!



Per convincerci definitivamente della verità di questo adagio basta pensare a come eravamo abituati con il GPS. Fino a qualche anno fa pagavamo delle società per avere delle mappe GPS aggiornate e funzionali per poterci spostare. Oggi il miglior servizio di navigazione, con un aggiornamento continuo ci è dato preinstallato e gratuito nei nostri cellulari. Chi copre quei costi? Come guadagna chi lo produce? Semplice con i nostri dati.


La camicia di forza dei dati Mai come ora, in forza della quarantena per il COVID-19 così tante persone trascorrono il loro tempo su internet. Il nostro abitare lo spazio digitale non si limita a quello cui eravamo abituati in precedenza ma si espande anche in ambiti della nostra vita che prima erano del tutto analogici o invisibili al digitale (non mi sarei mai immaginato di andare in cerca di video tutorial su come evitare la maglia glutinica). Il nostro se - tanto quello abbondante che quello ancorato - sta raggiungendo volumi di dati impensabili.


Questo tempo innaturale che trascorriamo isolati e, spesso, in internet fornisce una metrica granulare e dettagliata di chi siamo alle piattaforme social. Inizia ad essere datificabile un intero universo personale che prima non lo era. I nostri desideri, le nostre paure e anche le nostre credenze più intime. Si pensi ad esempio a cosa sta producendo lo streaming o le dirette Facebook di tutte le celebrazioni. Rendiamo profilabile e quantificabile tutta l'intimità spirituale delle persone che si connettono per seguire le Messe.


Di fatto stiamo consegnando una delle mappe comportamentali e dei profili dettagliati impossibili da ottenere in precedenza. Questo in cambio di quello che sembra "un pasto gratis" (o nel mio caso di una buona torta della nonna).


Questa mappatura delle persone e il valore che questi dati assumono sono al centro anche dell'analisi di diversi studiosi.


Ne Il capitalismo della sorveglianza Shoashanna Zuboff propone un nome da dare a questa cornice. Iniziare a chiamare le cose, soprattutto quelle nuove che non si conoscono ancora, è il primo passo per iniziare a comprenderle e superarle. Di fatto, quello che viene teorizzato è proprio l’ingresso dentro una “nuova era”. Un’era in cui la logica di accumulazione e sfruttamento del capitalismo tradizionale si è in qualche modo spostata verso la sfera immateriale e comportamentale. Per la Zuboff questa logica — che non va intesa come una conseguenza della tecnologia, ma dell’uso che della tecnologia ne fanno determinati attori come Google (indiziato principale) e Facebook — parte dai dati, li offusca, li rende in qualche modo proprietà non di chi li emette ma di chi li sfrutta, e costruisce un nuovo castello di stimoli e tentazioni che non vogliono solo trasformarti in un prodotto (andando quindi oltre il vecchio adagio per cui “se una cosa è gratis vuol dire che il prodotto sei tu”), non vogliono solo costringerci a un consumo senza confini, ma portarci proprio a una modifica predittiva del comportamento e a una graduale erosione del libero arbitrio. In questo contesto, in gioco non c’è solo una questione — sacrosanta — di privacy e di contrasto ai monopoli, ma tutta l’architettura democratica e personale. Del resto, vediamo tutti i giorni nella nostra esperienza come le dinamiche che sottendono a questa cornice stiano via via modificando usi, costumi, abitudini e modi di stare insieme.


Byung Chul Han in Psicopolitica ci ricorda che: “Il potere furbo, dall’aspetto liberale, benevolo, che invoglia e seduce, è più efficace di quel potere che ordina, minaccia e prescrive. L’opzione-like è il suo segno: mentre si consuma e si comunica, ci si sottomette al rapporto di dominio. Il neoliberismo è il capitalismo del mi-piace”. Un’infinita possibilità di connessione e di informazione ci rende veramente soggetti liberi? Partendo da questo interrogativo, Han tratteggia la nuova società del controllo psicopolitico, che non si impone con divieti e non ci obbliga al silenzio: ci invita invece di continuo a comunicare, a condividere, a partecipare, a esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita. Con un volto amichevole ci seduce e ci lusinga, mappa la nostra psiche e la quantifica attraverso i big data, ci stimola all’uso di dispositivi di automonitoraggio, ottimizzando le nostre prestazioni. Nel panottico digitale del nuovo millennio – con internet, gli smartphone e i Google Glass – non si viene torturati, ma twittati o postati, il soggetto e la sua psiche diventano produttori attivi di beni immateriali, i dati personali e le emozioni sono costantemente monetizzati e commercializzati. Han pone l’attenzione sul cambio di paradigma che stiamo vivendo, mostrando come la libertà oggi vada incontro a una fatale dialettica che la porta a rovesciarsi in costrizione: per ridefinirla è necessario diventare eretici, rivolgersi alla libera scelta, alla non conformità.

Celebrare le nuove possibilità che i media digitali ci hanno dato di presentarci ed esprimerci, non dovrebbe anche impedirci di riflettere sui loro limiti e sul perché questi limiti sono imposti. Attraverso l'analisi dei dati, le piattaforme di social media utilizzano i nostri profili per profilarci. Ci incoraggiano a essere molto e uno allo stesso tempo, a condividere costantemente sempre più dettagli della nostra vita che potrebbero essere combinati in un unico profilo cliente.



Realizzare il nostro sé abbondante e ancorato secondo questa logica di datafication potrebbe funzionare bene per alcuni di noi, a volte. Potremmo voler esprimere molte informazioni su di noi e potrebbe essere più comodo per noi utilizzare un profilo per accedere ad altri social media, piuttosto che creare un altro profilo.


Il tempo che viviamo è difficile e provante, non voglio qui dire che dobbiamo privarci del digitale e dei servizi social, che spesso ci consentono di avere anche grandi vantaggi. Facciamo quello che ci sentiamo e facciamolo liberamente. Ma pensiamo a quello che facciamo e pensiamoci ora per evitare camicie di forza che, domani, ci restituiscano un mondo privo di virus letali ma privo anche di quell'ossigeno che ci serve per sopravvivere: il potere di autodeterminarci.


Cerchiamo di non svendere il nostro futuro per qualche briciola di servizio gratuito oggi.


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